Cara Vecchia Milano, quando i gesti erano fiori di tenerezza

Le storie di Nene Vecchia Milano

“Chiedi a Dio che rifaccia

il tempo. Tornerà l’infanzia

e giocheremo”. (Gerardo Diego)

Milano 26 Ottobre – E torneranno i silenzi che sanno parlare d’amore, con i gesti lenti e abituali che profumavano di tenerezza, in una Milano sospesa tra la fatica e l’onestà, proiettata verso un sogno di rinascita e di grandezza. E torneremo bambini a giocare nei cortili, a ballare nei prati, a sorridere e ridere nell’ingenuità di un’infanzia con i colori della semplicità. E la memoria racconta…”La sera, intorno al tavolo, mia madre era felice quando c’era un piatto di pastasciutta per tutti. E mio padre chiedeva “Hanno fatto i bravi?” E poi apriva un cartoccio con il formaggio da dividere rigorosamente in parti uguali. Era un pezzo di formaggio prezioso perché “risparmiato” dal pranzo alla mensa della Pirelli. (Aldo)

“Amavo la musica. E c’era una radio in casa, ma non potevo toccarla. Al mattino dei giorni di festa potevo stare a letto a fantasticare e mia madre accendeva quel miracolo di radio. Quante volte mi sono chiesto come potesse suonare e cantare quella scatola con i bottoni..Ma la musica era come conoscere un mondo in più, era come avere i colori dentro” (Sergio) “Mamma aveva i capelli bellissimi, biondi “come il grano maturo” diceva mio padre. Li raccoglieva in una retina, lasciando qualche ricciolo sulla fronte. Ma, quando lambivano le spalle, la sera, papà furtivamente li accarezzava incantato”  (Carlo) “Devi fare la scuola, ninin, perché nella vita chi sa parlare e scrivere bene non si fa prendere in giro e può andare a testa alta, diceva mio padre e questa, allora, era la cultura per noi. Sì, sapevamo che esistevano gli scrittori e i poeti e i professori, ma nel nostro quotidiano si parlava dell’orto, dei soldi, della guerra..” (Nino) “Le mani di mio padre erano forti, grandi, un po’ ruvide. Se avevo freddo mi accoccolavo vicino a lui davanti al camino e ascoltavo le storie del nonno morto in guerra, là al Piave. Un nonno eroico, valoroso. Poi prendeva i miei piedini nelle sue mani e mi sembrava di entrare in un sogno dove non esiste la paura e il freddo” (Livio) “In casa papà incorniciava le illustrazioni dei giornali e tutto ciò che ci sembrava bello. E per bello si intendeva un paesaggio, un tramonto, una donna che ride un vecchio con il cane. Poi, piano piano, abbiamo comprato qualche quadro, non ricordo dove. E mia madre diceva “Adesso la casa ha proprio un bel vestito”. Ma la scoperta della pittura mi entusiasmò come la scoperta di un mondo nuovo. E andavo a Brera a piedi da piazzale Istria per vedere..per capire..Oggi ho più di cento libri d’arte e sfogliarli è sempre fare un viaggio nuovo nella Bellezza” (Luigi) “Allora si dava quel poco che si aveva, ma volentieri. E se la vicina di casa cucinava un piatto speciale, era festa per tutto il pianerottolo e non si dimenticavano mai le persone sole o ammalate” (Serafina) “Si parlava tanto di libertà, ma quando si è poveri non si può essere veramente liberi. Ma si può essere felici per l’amicizia che ti lega agli altri che sono come te. E ricordo certe sere là negli orti con l’Aldo a suonare e cantare quelle canzoni della mala e della vecia Milano che cantavano nelle osterie dei Navigli. E c’era sempre la luna, in quelle sere, non so il perché…ma c’era sempre anche una bella ragazza con gli occhi teneri. (Mino) “Vivevo in una casa di ringhiera, come tante altre, a Milano: le porte sempre aperte, il ballatoio con qualche fiore, tanto per creare colore e un cane rosso di nome Tom, giù nel cortile. Ci si chiamava per nome e, curiosamente, molte donne si chiamavano “Maria”. Allora si diceva “Maria del Gino, Maria del Renzo, Maria del Carlo ecc”. E nel chiarire il nome del padre c’era anche un chilo di affetto e di amicizia. A Natale per gli addobbi dell’albero si usavano oggetti quotidiani: i bigodini avvolti nella carta stagnola, i mandarini, le “gallette” con la barbetta di cotone idrofilo e il cappellino di panno lenci e le stelle di varie grandezze ritagliate dal cartone delle scatole da scarpe e dipinte con vari colori. E poi c’era il rito dei ravioli. Tutte le famiglie erano coinvolte. Un’intera giornata di lavoro per fare 400 ravioli che, a sera, finalmente, riposavano su un telo disposto sul letto, per seccare.” (Elisa) “Avevamo bisogno di lavorare e il lavoro va fatto bene. Ero riuscito, alla Breda, sia pure con difficoltà, a far capire a tutti, più o meno giovani, arrivati da tempo o da poco che non si doveva guardare l’orario e smettere quando uno aveva fatto le sue ore, ma si doveva lavorare in gruppo, stare insieme, aiutarsi. Era difficile farsi obbedire, ma con l’esempio e con la pazienza anche i ragazzi più nuovi si abituavano allo spirito di solidarietà. I ragazzi erano reclutati a volte per strada, fuori dai cancelli, molti venivano dal sud, un po’ spaventati, con una piccola borsa. Li facevo dormire nello scapolatoio, un dormitorio per quelli non sposati. Era dura, molto dura la vita allora” (Carlo)

Cara Vecchia Milano cul coeur in man.

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