Milano 28 Marzo – Chiedeva cinq ghej, con il garbo del pudore, con il sorriso della necessità. Le mani ossute di chi ha fatto la lavandaia, là ai Navigli, d’inverno e a primavera, il viso accartocciato dalle rughe, il corpo divorato da un abito troppo largo, memoria di una salute che non c’era più. Saltellava a piccoli passi al Parco Sempione con la mano tesa, senza insistere, chiedeva cinque lire, se puoi, per favore, ma se non puoi non importa, sarà per un altro giorno. La chiamavano cinq ghej con tenerezza, quasi una definizione d’affetto. Perché era diventata una persona di famiglia, una vicina di casa, un fiore invecchiato che profumava ancora di buoni sentimenti.
Il figlio, un ragazzone simpatico, tutto ironia e intelligenza, frequentava l’Università, facoltà di Filosofia e andava ogni mattina all’Ortomercato a scaricare cassette di frutta e verdura per mantenersi agli studi. Era l’orgoglio della madre che mai, ma proprio mai, avrebbe accettato di farsi mantenere. “Lui è bravo – diceva – Lui è nato per fare il professore e io ho il dovere di mettere in tavola un piatto di pastasciutta e il pane. Lui deve pensare a studiare e a pagare le tasse e i libri. Al resto devo provvedere io”
Offrire i cinq ghej era partecipare a un progetto di vita, era dare speranza, era un atto d’amore.
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Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano